Cardinal François Xavier Nguyên Van Thuân – Martire vivente, testimone di speranza (Cammini di santità #8)



La Quaresima è ormai iniziata, anche se noi ambrosiani ci accoderemo, come sempre, da domenica in poi. Per questo motivo ritengo giusto pubblicare adesso il mio nuovo articolo per Sacro Cuore VIVERE, dedicato a un Testimone che ha pagato di persona cosa significhi aderire profondamente alla Croce del Signore, ma, pur con le sue crisi, non ha mai smesso di sperare.
Conoscevo di fama il cardinal Van Thuân perché il suo esempio mi fu presentato durante un incontro di preghiera al catechismo, però non ero mai andata al di là di qualche aneddoto. Il lavoro per la rivista salesiana di Bologna, quindi, mi è risultato ancora una volta utile.
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Phú Khánh, Vietnam, 1976. Un uomo è rinchiuso da mesi in una cella di due metri quadrati, stretta e senza finestre: è il vescovo François Xavier Nguyên Van Thuân. Il suo ministero è stato interrotto dalle guardie comuniste, che l’hanno arrestato con falsi pretesti. Col tempo arriva a credere di stare sprecando il proprio tempo in quel modo: è costretto tra quelle pareti umide, ma potrebbe compiere tanto per diffondere il Regno di Dio. All’improvviso, nel cuore della notte, sente un suggerimento interiore: «Perché ti tormenti così? Tu devi distinguere tra Dio e le opere di Dio». Il vescovo comprende: rimette nelle mani di Dio tutto ciò che ha compiuto e le sue aspirazioni, offrendo la sua inattività e le sue sofferenze come nuova maniera per servire il suo popolo.


Vescovo con gioia e speranza

Nato in una famiglia cattolica, Thuân entra da adolescente in Seminario e viene ordinato sacerdote nel 1953. Sogna di fare il parroco di campagna, con la stessa dedizione del curato d’Ars, uno dei suoi santi preferiti, ma viene chiamato a proseguire gli studi a Roma. Quando torna in patria, per alcuni anni insegna in Seminario, poi diventa vicario generale della diocesi di Huê, mentre il Vietnam affronta una situazione caotica. Anche la sua famiglia ne viene segnata, tramite l’uccisione di due suoi zii. Lui fatica a controllare la rabbia per questa ferita nell’onore familiare, ma lentamente capisce di dover perdonare, seguendo l’esempio della madre.
Con sua sorpresa, viene eletto vescovo della diocesi di Nha Trang nel 1967. Assume come motto episcopale il titolo di una delle Costituzioni del Concilio Vaticano II, che aveva vissuto nei suoi anni romani: «Gaudium et spes», «Gioia e speranza». Il 15 agosto 1975, poco dopo essere stato nominato da papa Paolo VI arcivescovo coadiutore di Saigon, è convocato con un pretesto dalle autorità comuniste: lo accusano di essere una spia al servizio del Vaticano e delle potenze straniere. Inizia così il suo travagliato percorso, tra domicili coatti, celle d’isolamento, campi di prigionia e torture di ogni sorta.

Luci nella prigionia

Van Thuân trova sempre il modo di reagire a quelle privazioni. Nel 1975, durante la sua residenza obbligata nella canonica di Cay Vông, si domanda come raggiungere il suo popolo pur non potendo incontrare né vedere nessuno. Gli viene un’idea: come san Paolo con le sue lettere, così lui farà pervenire i suoi messaggi in un piccolo libro. Usa quindi, come carta di recupero, i fogli di alcuni vecchi calendari: glieli procura un ragazzino, aiutato dalla sua famiglia, che riesce ad eludere la sorveglianza.
Nasce così «Il cammino della speranza», che viene diffuso passando di mano in mano, ricopiato, letto anche al di fuori del Vietnam. I suoi contenuti sono le stesse intuizioni che lui matura durante il domicilio coatto, frutto della sua esperienza diretta: «Sii preparato» scrive «a rifiutare la ricchezza e la posizione sociale – perfino a dare la vita – per preservare i tuoi ideali, la tua integrità e la tua fede. Non devi mai comportarti diversamente, perché farlo significa perdere tutto».
Trova la sua forza nella celebrazione dell’Eucaristia, ma deve usare qualche stratagemma per procurarsi il vino e il pane da consacrare: il primo lo fa passare per una medicina per il mal di stomaco, mentre il secondo gli arriva nascosto in una fiaccola perché non vada a male. «Così in prigione sentivo battere nel mio cuore il cuore stesso di Cristo. Sentivo che la mia vita era la sua e la sua era la mia».

In dialogo con prigionieri e carcerieri

Nel dicembre 1976 viene trasferito con altri prigionieri: dal campo di Phú Khánh passa a quello di Vinh Quang, nel Vietnam del Nord. Durante il tragitto un compagno di prigionia cerca d’impiccarsi con un cavo d’acciaio: gli altri cercano di dissuaderlo e, per questo motivo, chiedono l’aiuto di Thuân. Mentre il prigioniero piange e grida di voler morire, lui cerca di trovare le parole giuste per dargli conforto. Alla fine l’uomo si calma e lo ringrazia: «Sto bene, non ho più paura. Possono farmi quello che vogliono, non ho più paura».
Dal 1978 al 1982 è costretto a restare nel villaggio di Giang Xa: può passeggiare in giro, ma non gli è concesso rivolgere la parola a nessuno. In effetti, gli abitanti inizialmente lo sfuggono, perché sono stati convinti dai funzionari comunisti che lui sia un elemento pericoloso. Pian piano, però, riesce a instaurare un dialogo con loro: si fa amico perfino la guardia che dovrebbe puntargli sempre gli occhi addosso.
In seguito, viene di nuovo obbligato all’isolamento totale. I soldati, a volte, lo sentono cantare e lo prendono per pazzo, ma poi alcuni di essi imparano da lui cosa siano quelle nenie misteriose: il «Te Deum» e il «Veni Creator», intonati in latino. Gli ufficiali ordinano quindi di cambiare la sede della segregazione, ma il prigioniero continua la sua resistenza silenziosa, nutrito della sua abituale “medicina per il mal di stomaco”. Dopo altri trasferimenti, il 21 novembre 1988, viene finalmente liberato e, tre anni dopo, espulso definitivamente dal Vietnam.

L’esperienza e la testimonianza

Thuân continua però a viaggiare, richiesto come predicatore o, semplicemente, per offrire la sua testimonianza. Lo stesso papa Giovanni Paolo II gli chiede di presentare la sua esperienza negli Esercizi spirituali per la Curia Romana, nella Quaresima del 2000. Lui esita, ma il Pontefice gli chiede se abbia un tema in mente. Alla sua risposta, ovvero che pensava di parlare della speranza, papa Wojtyła l’invita a presentare la sua esperienza personale.
Il 21 febbraio 2001 viene creato cardinale, con la diaconia di Santa Maria della Scala, ma proprio durante i preparativi gli arrivano gli esiti di alcuni esami: ha una rara forma di cancro. Muore quindi a Roma il 16 settembre 2002. Nei suoi numerosi libri emerge ancora l’energia della sua speranza, che raggiunge i suoi lettori e li incoraggia, secondo quanto disse san Giovanni Paolo II al termine degli Esercizi spirituali del 2000: «Testimone egli stesso della croce nei lunghi anni di carcerazione in Vietnam, ci ha raccontato frequentemente fatti ed episodi della sua sofferta prigionia, rafforzandoci così nella consolante certezza che quando tutto crolla attorno a noi e forse anche dentro di noi, Cristo resta indefettibile nostro sostegno».

Originariamente pubblicato su «Sacro Cuore VIVERE» 2 (2017), pp. 16-17.

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